sabato 17 novembre 2012

Stato Sociale: lusso impossibile?



Ecco le parole del ministro per le attività culturali, Lorenzo Ornaghi, ospite di un convegno a Stresa: “Uno stato sociale garantito dallo Stato non sarà più possibile, qui come in nessun altro Paese dell’Occidente. Il welfare – ha spiegato ancora il ministro – è stato una grande trasformazione di tutto il Novecento, ma ha anche modificato, e talvolta indebolito, il funzionamento della democrazia, perchè l’aspettativa generalizzata, una volta diventata diritto, abbisogna di una soddisfazione che appesantisce i costi dello Stato. E’ un’esperienza storica che ci lascia la necessità di dover proteggere fasce ampie di cittadini al meglio possibile, ma che non potrà più essere sostenuta con le risorse dello Stato. Da qui la necessità di trovare nuove forme di cooperazione, partenariato, integrazione, tra pubblico statale e privato sociale nelle diverse forme di welfare. Se non troviamo quelle – ha concluso Ornaghi – non usciremo più da una crisi del welfare che è irreversibile”.

Opinione interessante, non c’è dubbio.
E’ infatti da notare, con estremo interesse, come un ministro della Repubblica sia capace di stravolgere totalmente la valutazione dello Stato Sociale e a mistificare l’argomento fino a ribaltarne il senso.
Dunque secondo il prode Ornaghi lo “stato sociale garantito dallo Stato non sarà più possibile”. E perciò da chi potrà venire l’offerta di welfare di cui i cittadini abbisognano?
Il ministro si abbandona alla pura farneticazione: “partenariato e privato sociale”. Parafrasando Totò, il che non è poi così assurdo vista l’ascesa dei “comici” nella politica italiana, mi viene da dire “ma mi faccia il piacere!”
Privato sociale? Ma di cosa stiamo parlando? “Privato sociale” già è un ossimoro in ternimi linguistici (se è privato non è sociale, e viceversa), e in termini operativi non si capisce proprio come si possano coinvolgere capitali privati in progetti che siano realmente di bene comune e non ulteriore business opportunamente travestito.
La verità è semplice, ma proprio semplice: può esserci stato sociale solo in presenza di iniziativa statale, con capitali pubblici, senza se, ma e forse.

Dunque cosa resta della proposta di Ornaghi una volta sgombrato il campo di quella postilla, vagamente consolatoria ma anacronistica, del “privato sociale”?
Presto detto: lo stato sociale non sarà più possibile, ovvero dimenticatevelo.
E perché bisogna dimenticarselo? Perché costa troppo, ovvio, no?
Notate il pensiero che larvatamente si insinua nella mente del lettore-cittadino scorrendo la sua dichiarazione: lo stato sociale è una spesa, anzi, un lusso!

Ecco il ribaltamente del senso. Il welfare, lungi dall’essere una pura e semplice spesa, è il fondamento stesso della più grande realizzazione dell’umanità: il concetto di Stato, cioè il vivere in una comunità in cui una parte delle risorse vengono condivise allo scopo di costruire un sistema di garanzie protettive a vantaggio di tutta la comunità stessa.
In altre parole, se non c’è welfare non c’è proprio lo Stato stesso! E’ il concetto di Stato che smette di esistere.

Notate l’argomento chiave dell’Ornaghi-pensiero: “l’aspettativa generalizzata, una volta diventata diritto, abbisogna di una soddisfazione che appesantisce i costi dello Stato”.
Ripensiamo un attimo a questo passaggio. I costi dello Stato da chi sono sostenuti se non dai cittadini stessi? Quindi se io cittadino pago di tasca mia un diritto per quale motivo dovrei accettare di sentirmi dire che quel diritto non può essere soddisfatto perché troppo costoso?
Ovvero: cosa ci fanno dei miei soldi gli amministratori dello Stato ché dovrebbero spenderli secondo le mie indicazioni e non secondo il loro capriccio o presunzione?

E’ lecito che un ministro della Repubblica, cioè un amministratore dei soldi pubblici, mi dica che non può più mantenere un certo livello di welfare e non chiarisca invece se e dove ci possono essere altri capitoli della spesa pubblica da tagliare invece dello stato sociale?
Che cosa ci fanno i nostri governi dei soldi, tantissimi, che incamerano dal gettito fiscale che i cittadini versano alle casse dello Stato?
E’ giusto tagliare la spesa per sanità, scuola, università e ricerca, infrastrutture pubbliche per comprare invece degli aerei da guerra che non solo costano uno sproposito ma sono anche inutili e contrari alla Costituzione?
E’ giusto che un amministratore dello Stato che “dimentica” di incassare una importante parte del gettito fiscale, a tutto vantaggio di una “minoranza qualificata” della popolazione, dica che l’attuale livello di welfare è insostenibile invece di cominciare ad esigere con fermezza il gettito evaso?
E’ giusto che un ceto politico che costa il quadruplo di quello di tutti gli altri paesi occidentali possa fare questi discorsi ai cittadini?

Notate anche un’altra cosa, anch’essa subdola.
Ogni qualvolta i politici al governo (salvo poi cambiare faccia quando si ritrovano all’opposizione) parlano di stato sociale e welfare usano parole che portano implicitamente alla identificazione welfare=assistenzialismo.
Si inizia a parlare dei dipendenti pubblici fannulloni, delle spese sanitarie inutili, delle scuole spendaccione, delle false pensioni d’invalidità, eccetera.
Questo serve per tentare di convincere il popolo bue che in fondo lo stato sociale è soprattutto tutela dei parassitismi più beceri.

E’ falso!
Welfare è tutt’altro. La finalità del welfare è quella di costruire un sistema di garanzie e protezioni che mantengono un alto livello di benessere nella popolazione, in tutta la popolazione.
E ciò, al passo successivo, diventa economia sana e prospera, quindi alti livelli di consumo ed occupazione, e quindi ancora alto gettito fiscale, che in sostanza rende il “costo” del welfare sempre più sostenibile.
In altre parole un buon welfare è il punto di partenza di quel circolo virtuoso che chiamiamo anche benessere diffuso.
Altro che assistenzialismo!

Che poi in Italia, nell’italietta dei furbetti, una buona parte della spesa sociale sia divenuta negli anni protezione di parassiti di varia foggia è un malcostume che deve la sua prima ragione alla politica cialtrona del voto di scambio.
Ma non è certo con lo smantellamento del sistema di welfare che risolviamo il problema della cialtroneria di politici e cittadini parassiti!

Facciamo allora uno sforzo per riportare il discorso sul welfare al suo vero senso, cominciando con l’evidenza che il livello attuale di spesa sociale non è coperta dalle entrate dello Stato.
Il punto fermo del discorso è questo: il livello attuale di welfare in Italia non è affatto eccessivo!
Anzi, per certi aspetti andrebbe addirittura rafforzato. Ad esempio l’Italia è uno dei pochissimi paesi europei a non prevedere alcuna forma di reddito di cittadinanza.
Che le pensioni e gli ammortizzatori sociali siano in linea con il resto dell’Occidente è un fatto assodato.
Ed è assolutamente falso un altro luogo comune che ha attecchito con ostinazione nel popolo-bue, ovvero che in Italia ci sono “troppi dipendenti pubblici”.
La stessa spesa sanitaria, pur essendo molto squilibrata e in certe regioni sicuramente fuori controllo non è assurdamente alta nel complesso, ma ricordiamoci anche che produce un sistema sanitario che è considerato il migliore al mondo insieme a quello francese (anche qui il popolo-bue, opportunamente “distratto” dalla propaganda mediatica, preferisce invece esercitarsi sterilmente sui “tantissimi”, in realtà pochissimi, casi di malasanità).
Su università e ricerca scientifica è invece tristemente vero che la nostra spesa è decisamente inferiore a quella degli altri paesi.
E quindi, dove sta tutta questa folle spesa pubblica per mantenere lo stato sociale?
Semplicemente non c’è.

Allora ripartiamo col nostro ragionamento: siccome l’attuale livello di welfare non è affatto eccessivo, e siccome la pressione fiscale (ovvero le entrate dello Stato) è invece molto elevata, come mai lo Stato non ce la fa a mantenerlo?

Bene, la risposta cade da sola, come un frutto maturo.
E’ una risposta semplice semplice, tanto semplice quanto sgradevole per chi deve amministrare la macchina statale italiana.
Lo stato non ce la fa perché spende malissimo, oppure spreca, i soldi pubblici!

Quindi, caro ministro Ornaghi, invece di sproloquiare sul welfare, argomento sul quale lei dimostra scarsa comprensione, perché non comincia, lei e tutti i suoi colleghi, a far bene il suo lavoro, ovvero ad amministrare bene la cosa pubblica?

lunedì 5 novembre 2012

"... però ha creato tanti posti di lavoro..."



Questo è l'argomento finale, una sorta di extrema ratio, a cui il popolo bue si aggrappa per difendere un imprenditore che va a finire nei guai.

Mettiamo caso – pura illazione, s’intende... – che un famoso imprenditore, di quelli per intenderci che riempiono le cronache sia finanziarie sia rosa (ma siccome voglio fare un discorso generale non farò nomi), venga sospettato di reati; che ne so, una bancarotta fraudolenta, una corruzione di qualche pubblico ufficiale, una evasione fiscale; oppure si ritrovi improvvisamente coinvolto in qualche scandalo di appalti truccati, truffe verso risparmiatori, finanziamenti illeciti alla politica; o magari semplicemente sia protagonista di qualche storia torbida di sesso o droga o più verosimilmente entrambe.

Bene, in questi casi se ci si trova a discutere in un gruppo di persone della vicenda, si troverà immancabilmente almeno uno, il perfetto uomo-bue, di quelli che nascono con l'imbasto attaccato sulle spalle e non se lo staccheranno mai, anzi neppure si accorgeranno mai di averlo, che prenderà le accorate difese dell'imprenditore di cui sopra, arrampicandosi sugli specchi per difendere il suo eroe proditoriamente ingiuriato.

Man mano che gli argomenti contro il suo vate si assommano (perché è un classico che questi grandi protagonisti del capitalismo si distinguano per aver commesso non una singola porcata, bensì quasi sempre una intera e interminabile teoria di operazioni al limite della morale e della legge, e spesso ben oltre quel limite) la difesa d'ufficio perde vigore fino al punto in cui, incapace di reggere oltre il peso delle accuse, l'uomo-bue mette sul piatto della discussione l'ultima carta, l'extrema ratio di cui sopra: "sarà anche vero quello che dicono contro di lui..." (ma in realtà l'uomo-bue non ci crede, perché lui crede a qualunque stronzata provenga dal piccolo schermo, ma che il suo grande mito possa essere in realtà un verme non lo crederà mai e poi mai, al limite sarà stato ordito un complotto ai suoi danni) "... ma in fondo voglio ricordarvi che con le sue aziende ha creato tantissimi posti di lavoro. Ma vi rendete conto di quanti posti di lavoro ha creato negli anni? Migliaia! E per me questo è già sufficiente per dargli una medaglia e mandarlo assolto."

Ora, tralasciamo per un attimo una valutazione puramente morale di questa argomentazione, per cui questo ragionamento sarebbe immediatamente rigettato, perché secondo questa logica un efferato criminale come Totò Riina dovrebbe essere considerato un benemerito, visto a quanti picciotti dà lavoro!

Voglio ragionare invece sul nucleo stesso del ragionamento di cui sopra: gli imprenditori che creano i posti di lavoro.
Mi ci voglio soffermare perché non solo si tratta di una affermazione assolutamente falsa, ma perché si tratta di una delle più odiose mistificazioni che la terribile macchina di propaganda del Capitalismo ha messo in piedi.

Secondo questa concezione gli imprenditori "creano" i posti di lavoro. Il lavoro è frutto di investimenti, di capitali che generano aziende e quindi opportunità di lavoro. Gli imprenditori sono il vero motore del lavoro, perché possono disporre di capitale di rischio e quindi fare impresa da cui vengono i posti di lavoro di cui può poi disporre il popolo.
Ebbene, quanto sopra è del tutto falso, smentito dalla realtà dei fatti passati e presenti. Si tratta di una pura e semplice mistificazione finalizzata ad amplificare i meriti del Capitalismo e a persuadere il popolo-bue che è lui che genera ciò di cui si ha bisogno, cioè il lavoro, e in ultima analisi che è un modello senza alternative credibili.

Ora, sebbene sia innegabile che i posti di lavoro siano materialmente erogati dal sistema delle imprese (naturalmente sto deliberatamente ignorando il lavoro nella pubblica amministrazione) non è affatto ovvio che chi eroga un posto di lavoro, ovvero predisponga l'ufficio e/o le attrezzature usate dal lavoratore e poi gli paghi lo stipendio, si possa tout court anche considerare il creatore del posto di lavoro.
Chi è che veramente ha creato il presupposto per l'esistenza di lavoro, infatti, non è l'impresa che lo eroga quanto piuttosto la domanda del bene prodotto da quel lavoro.
Chi è che ha realmente "creato" una casa: il costruttore che materialmente la edifica oppure il cliente che alla fine la pagherà? O meglio ancora: il fatto che ci siano clienti disponibile ad acquistare quella casa?

Attenzione, non si tratta di un puro sofisma! Non è una questione di lana caprina come sembrerebbe ad un primo sguardo superficiale.
Si tratta in effetti di capire dove stia effettivamente l'evento che genera in prima battuta il lavoro.
Basta ragionarci su un attimo per capire che l'assunzione di un lavoratore in una azienda è il riflesso, la conseguenza, di un'altra premessa, senza la quale quella assunzione non avrebbe mai luogo: il fatto che quella azienda abbia commesse, clienti che richiedono i beni e/o i servizi da lei prodotti.
Senza la domanda non esiste né impresa né lavoro.

Dunque diventa evidente che è il mercato il vero "creatore" dei posti di lavoro. Infatti nessun imprenditore assume lavoratori se non intravede concretamente un mercato a cui rivolgersi.

Ma chi è questo "mercato" o questa "domanda di benessere" di cui parliamo (ciò che gli economisti definiscono domanda aggregata)?
Be', ma non è evidentissimo? SIAMO NOI.
E' la gente, il popolo, anzi meglio, il popolo-bue. L'insieme dei cittadini, le famiglie, che con la loro richiesta di benessere tiene in piedi tutta l'economia nonché sostiene il mercato del lavoro e, di fatto, "crea" anche tutti i posti di lavoro disponibili.

L'imprenditore è semplicemente uno che coglie le opportunità che il mercato offre. L'obiettivo dell'imprenditore, infatti non è affatto creare posti di lavoro, bensì massimizzare i profitti. Fare soldi, questa è la sua mira.
Intendiamoci bene, non c'è assolutamente nulla di sbagliato né di moralmente indegno nella ambizione a guadagnare denaro, purché si chiamino le cose con il loro nome, e non si tenti di invertire le cause con gli effetti.

Un imprenditore vuole fare soldi, punto. Se può produrre la stessa quantità di prodotti, con la medesima qualità, riducendo il numero di addetti alla produzione, non avrà alcuno scrupolo a licenziare alcuni suoi dipendenti, anzi sarà addirittura forzato dalla competizione a fare ciò.
Potremmo quindi azzardarci a dire che l'imprenditoria, lungi dall'essere la supposta creatrice di posti di lavoro, è una macchina che lavora per aumentare i profitti riducendo i posti di lavoro erogati.

Se guardate con attenzione la realtà che ci circonda cogliete l'essenza di verità della affermazione precedente.
Osservate infatti il fenomeno delle fusioni e acquisizioni aziendali.
Perché avvengono? A cosa effettivamente servono?
Fate attenzione, quando due o più aziende si fondono formando una unica ragione sociale, dopo qualche anno di assestamento la nuova azienda creata si attesterà ad un numero di dipendenti che è immancabilmente inferiore alla somma dei dipendenti delle aziende originarie.
Si conferma ancora una volta che gli imprenditori mirano a ridurre i posti di lavoro, altro che crearli! Il che è ben ovvio, visto che diminuire il costo del prodotto significa aumentare i margini di profitto e la competitività.

Ma allora, tornando verso il punto di partenza di questo mio ragionamento, come mai l'uomo-bue visto all'inizio sente il bisogno di difendere ad ogni costo l'imprenditore?
Evidentemente perché, proprio in quanto uomo-bue, non ha sufficiente indipendenza di pensiero, è vittima di una propaganda mistificatoria che lo spinge ad ascrivere meriti a chi in realtà non ne ha affatto.

Tutta la nostra società spinge con forza, attraverso l'imposizione di modelli culturali, il popolo-bue verso l'adorazione del potente e del ricco.
Naturalmente questi modelli culturali sono edificati proprio da quella Plutocrazia che ne trae legittimazione. D'altra parte i ricchi oggi detengono quasi tutto il denaro e quindi il potere disponibile, e possono dunque condizionare la cultura dominante attraverso i mezzi di comunicazione di massa.

L'uomo-bue tutto questo non lo capisce affatto, e si lascia convincere ad adorare proprio quel Potere che gli tiene il piede calcato sull'imbasto che ha attaccato alla schiena e gli spinge la faccia giù verso la mota, in modo che non possa più vedere com'è fatto realmente il mondo.

Soprattutto l'uomo-bue non comprende che il lavoro è creato da lui, dalla gente, dal popolo, dalla comunità dei lavoratori stessi e dalle loro famiglie.
Gli imprenditori non sono affatto necessari.
O, per meglio dire, se c'è un mercato forte, un'economia solida, che generano una domanda altrettanto forte, nuovi imprenditori spuntano dal nulla come funghi, perché così funziona il nostro modello basato sulla libera iniziativa.
Se un imprenditore affonda, va in galera, fallisce o quant'altro, non c'è alcun problema, non saranno persi i posti di lavoro erogati dalla sua azienda, perché sicuramente nasceranno altre imprese a prenderne il posto lasciato libero.
Di converso, se il mercato non tira e l'economia è in crisi, non c'è imprenditore che tenga, i posti di lavoro si perdono inesorabilmente, i licenziamenti fioccano.

Non ci credete? Non siete convinti?
Provate allora a ragionare un attimo sulla realtà italiana odierna.
In Italia ci sono frotte di imprenditori, ricchissimi fino all’opulenza, famiglie di capitalisti, gente che ha quantità enormi denaro e quindi del tanto decantato “capitale di rischio”, tuttavia la disoccupazione aumenta giorno dopo giorno, da anni.
Come mai tutti questi sedicenti “creatori di posti di lavoro” non riescono ad invertire questa tendenza alla recessione?
Sarà mica perché per l’appunto è la domanda che manca e quindi anche i posti di lavoro diminuiscono inesorabilmente?

L'attenzione dovrebbe essere tutta concentrata sul benessere delle famiglie.
Questa dovrebbe essere la priorità, perché questo è ciò che effettivamente tiene in piedi tutto quel complesso ambaradan che è la nostra economia.

Però questa osservazione è pericolosa, è una vera e propria eresia, un pensiero inquinante e deformante per la Plutocrazia al potere, perché da essa discende un corollario per lei esiziale: se la barca fa acqua e qualcuno è da buttare a mare, bisogna cominciare dai ricchi, non dai poveracci.

Pericolosissimo pensiero, inaccettabile.
E' necessario intorbidare la acque e convincere il popolo-bue del contrario: se si buttano a mare i ricchi, i capitalisti, gli imprenditori, non ci sarà più nessuno a "creare lavoro" e sarà un disastro!
E' assolutamente falso, anzi è vero il contrario: è togliendo risorse alle moltitudini per salvare gli enormi patrimoni dei Plutocrati che si distrugge il lavoro e l’economia!
Ma che importa che sia falso, basta convincere i pecoroni e il gioco è fatto...
Poi se la barca va a fondo chi se ne frega, quei pezzenti anneghino pure tanto noi paperoni con tutti i soldi che abbiamo fatto ci trasferiamo in qualche paradiso esotico a goderci il malloppo che abbiamo già provveduto a portar via di nascosto!

Questo è il motivo per cui considero particolarmente odiosa la mistificazione in oggetto, perché spinge la gente a sottovalutare il proprio ruolo centrale nella società e ad attribuirlo a chi invece andrebbe a tutti gli effetti considerato un vero e proprio parassita della collettività, perché tale è a ben vedere chiunque disponga di grandissimi capitali accumulati e quindi ricchezza tolta dal circuito del benessere condiviso dalla collettività stessa.

Ritorniamo ad un tema già affrontato: la vera essenza del Potere siamo noi stessi, la nostra ignoranza, la nostra incapacità di vedere le cose nella giusta prospettiva, e di contro la nostra notevole propensione a farci convincere da argomenti sbagliati, fuorvianti, contrari alla nostra stessa convenienza.